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ADOLESCENCE. UNA SERIE CHE TURBA MA FA RIFLETTERE

  • Mariagrazia Spadaro
  • 8 mag
  • Tempo di lettura: 4 min

Stadera n. 162 – Mag/Giu 2025


Qualche mese fa è uscita sulla piattaforma streaming Netflix la serie TV “Adolescence”, la quale ha riscosso maggiore interesse e non poche riflessioni. Si tratta di una miniserie britannica da quattro puntate che si concentra sui temi dell’adolescenza, del bullismo, dei malesseri occultati tra le pieghe virtuali delle emoticon, nonché dei genitori e della scuola, degli adulti educatori che guardano senza vedere, che parlano un altro linguaggio, che restano tranquilli sul divano finché non si accorgono della tragedia. E allora prima negano, poi ne sono sconvolti.

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La prima puntata inizia con la polizia che irrompe all’improvviso una mattina nella vita e nella casa, della famiglia Miller. L’accusa per il figlio più piccolo Jamie, appena tredicenne, è di aver ucciso a coltellate una coetanea. Ma più che su “cosa” ha fatto, la miniserie si sofferma sul perché l’ha fatto. Girati in un unico piano sequenza attraverso la telecamera che mette lo spettatore nella condizione di vivere i momenti, per cui gli episodi ci provocano e ci angosciano.

La narrazione ci porta nel mondo oscuro dell’adolescenza, considerato sconosciuto per gli adulti, e con loro i significati delle emoticon o parole come incel (ndr “casti non per scelta”, uomini eterosessuali che si sentono discriminati e rifiutati dalle donne e che le incolpano di privarli di ciò che è un loro diritto). Poi c’è la sfera sessuale, per la quale le ragazze preferiscono parlarne al di fuori della famiglia. Perciò è necessaria la presenza di educatori esterni che siano in grado di entrare in empatia con i ragazzi, attraverso l’ascolto non giudicante ma attento e protettivo.


Il mondo dei ragazzi appare inaccessibile agli adulti, che non ne conoscono né padroneggiano i codici. Il mondo della Gen-z (i nati alla fine degli anni Novanta) o della Gen-Alpha (i nati dopo il 2010) è tanto “materiale” quanto “virtuale”, e molte delle dinamiche di Adolescence (bullismo, cyber-bullismo, diffusione non consensuale di immagini pornografiche, ma anche violenza e misoginia) sono riconducibili ai social media. Nel vedere la serie viene in mente un libro del mass-mediologo Joshua Meyrowitz (Oltre il senso del luogo, Baskerville), che già negli anni Novanta sottolineava come l’infanzia e l’adolescenza venivano liquidate per via dell’azione dei mezzi di comunicazione. Senza più una separazione (e una protezione) dal “mondo dei grandi”, i ragazzi sembrano diventare adulti precoci: e così Jamie Miller è raccontato come un bambino che dorme con un peluche nel letto, ma anche un uomo capace di sconcertanti scatti d’ira.


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Molte volte vediamo genitori che fanno fatica: iperprotettivi, non accettano e non fanno accettare le frustrazioni, non aiutano a crescere. Ma stare bene insieme tra ragazzi può essere un antidoto: in classe, il pomeriggio con lo sport di squadra o gli scout. È una socialità sana. Una rete che funziona, fuori casa, non da soli davanti a un cellulare dentro a una cameretta». Laddove sia difficile stabilire ponti e connessioni tra ragazzi e genitori, può essere utile affidarsi ai professionisti poiché l’importanza di chiedere aiuto può rivelarsi proficuo per entrambe le parti.


“Mi dispiace ragazzo. Avrei potuto fare di meglio». È questa la frase che chiude la serie. A pronunciarla è il padre di Jamie. La serie mette a fuoco la necessità di una paternità rinnovata. E più in generale, di una genitorialità rinnovata. La storia ci mostra un padre confuso, che è stato un figlio confuso e che diventa padre portando nella relazione con suo figlio Jamie i propri bisogni irrisolti. Adolescence mette in scena tutta la fatica della genitorialità contemporanea, allontanatasi dal modello delle generazioni precedenti, ma incapace di generarne uno nuovo. Si vedono ragazzi affamati di validazione attraverso la modalità ingannevole della comunicazione proposta dai social media.


I preadolescenti vengono raccontati come soggetti narcisisticamente fragili alla ricerca di un rispecchiamento esterno che dia loro valore e che confermi precocemente un’identità ricercata e non raggiunta con maturità. Si ha la percezione che il dramma di Jamie non sia solo suo, ma di un’intera generazione, costretta a fare tutto troppo presto e cresciuta da adulti confusi che non hanno saputo trovare la bussola per orientare il proprio progetto educativo in un tempo abitato dal disorientamento collettivo.

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C’è un vuoto etico, c’è una mancanza di empatia che trasforma il tempo della vita in un tempo di conflitto dove invece che allearsi, ci si trova a essere tutti contro tutti. Credo che questa serie faccia tanto parlare, perché obbliga noi adulti a riflettere partendo dalla domanda “Dove ci siamo persi?”. Il film non dà una risposta semplice, perché mostra una complessità di fattori alla radice di quel senso di confusione oggi pandemico, portandoci ad empatizzare con il padre di Jamie, quando nella scena finale, piange lacrime di dolore a fianco dell’orsacchiotto di suo figlio. Quel figlio che ha dormito avendo un orsacchiotto appoggiato sul cuscino del letto la notte prima dell’alba in cui è stato prelevato e portato in carcere per omicidio.


Dormire stringendo un orsacchiotto, dopo aver ucciso una coetanea a coltellate: il paradosso della crescita oggi sta tutto in questa contraddizione. Figli ancora piccolissimi che fanno le peggio cose del mondo adulto. Mentre i genitori, confusi e disorientati, li perdono di vista. È proprio questo ciò che dichiara il papà: «Il problema è che ho perso di vista mio figlio». Ma forse il problema principale è che noi adulti abbiamo perso di vista il nostro ruolo di adulti. Adolescence ti turba come raramente accade. Ma è un turbamento che fa riflettere.

 

Mariagrazia Spadaro






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